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sue continue citazioni latine, al suo modo di ripararsi dietro nomi consacrati dalla Storia per
sostenere la minima tesi. Ero felice di sentire parlare Polidori in questo tono; felice della forza
muscolare con cui sosteneva il suo punto di vista. L'idea che uno scrittore nella sua posizione
avesse ancora delle opinioni così libere e rabbiose mi comunicava un senso di sollievo quasi
inebriante: mi divertivo ad ascoltarlo, mi divertivo della complicità che si era stabilita tra noi.
Ha detto: «Vedrai quando il tuo libro uscirà , caro Roberto. Hai una tale quantità di colpe, dal
punto di vista della critica. Intanto non sei ancora morto, ed è già abbastanza grave. Ma non sei
neanche vecchio, né particolarmente povero o brutto, né vieni dal Terzo Mondo, e nemmeno da
una delle estreme province d'Italia. Non hai handicap fisici evidenti, né una fede evidente. E questi
sono solo i tuoi punti deboli puramente personali».
Gli ho detto: «Madonna, allora faccio meglio a non provarci neanche».
Ho riso insieme a lui, e non mi sembrava vero averlo così vicino e così amico; l'avrei
accompagnato in guerra contro chiunque, se solo me l'avesse chiesto.
Alla fine abbiamo lasciato il Tevere e siamo entrati nel centro, oltre un blocco dei vigili che
hanno dato un'occhiata al contrassegno sul parabrezza e ci hanno lasciati passare.
Polidori ha detto: «Non dovrebbero dare permessi a nessuno. Così tutti sarebbero costretti ad
andare a piedi o in bicicletta, tranne i paralitici e le persone vecchissime che potrebbero viaggiare
su qualche autobus elettrico».
E anche se guidava con molta naturalezza la sua macchina senza marca, e la sua macchina
rispondeva così morbida e pronta ai suoi comandi, non sembrava che parlasse in modo ipocrita.
Gli ho chiesto: «Che macchina è?», indicando il volante.
Lui ha detto: «Ma niente, è assolutamente di serie. Ho solo fatto togliere tutti i marchi e le
altre scemenze».
Non mi ha detto che macchina era, ma aveva l'aria di poterne fare davvero a meno: di poter
scendere in qualsiasi momento e lasciarla li senza che la sua vita ne fosse minimamente
influenzata.
Ha fermato in una piazzetta-parcheggio e siamo scesi, L'ho seguito lungo il marciapiede.
Camminava con un passo elastico e pieno di energia, da straniero più che da uno semplicemente
abituato ad attività fisiche; dovevo trottare per stargli dietro. Ma non andava dritto senza vedere
niente come fanno di solito le persone famose: guardava gli edifici intorno, le vetrine, la gente che
entrava e usciva dai negozi.
Mi ha chiesto: «Non la conosci per niente, Roma?».
«Per niente», gli ho detto io.
Lui ha detto; «E una città strana. Fin dalle prime volte mi ha provocato solo desolazione pura
o benessere indiscriminato, senza nessuno stato intermedio».
Alcuni passanti lo riconoscevano; lo guardavano fisso, giravano la testa. Lui non faceva finta
di non accorgersene: rispondeva agli sguardi, registrava i gesti.
Mi ha detto a mezza voce: «Tre quarti di loro non hanno letto una riga di quello che scrivo, mi
hanno solo visto alla televisione».
Non sembrava particolarmente infastidito all'idea, sorrideva. Gli camminavo di fianco, peggio
vestito e non altrettanto sicuro dei miei movimenti; cercavo almeno di tenere il passo. In cinque
minuti siamo arrivati al vecchio palazzetto lussuoso della redazione dov'ero stato la sera prima.
Un portiere ha fatto un mezzo inchino a Polidori, ma i suoi occhi erano del tutto indifferenti mentre
ci guardava andare su per le scale, due gradini alla volta. La segretaria ci ha aperto, poco più
comunicativa e cordiale della sera prima; si aggiustava i capelli con una mano.
Polidori le ha detto: «Il dottor Bata è il nuovo redattore della rivista».
Lei mi ha salutato come se non mi avesse mai visto prima, senza scomporsi. Ed ero sorpreso
a sentir parlare della mia assunzione come di una cosa decisa, quando fino a quel momento
avevo pensato che ci fosse ancora un margine di incertezza.
Un tipo grassoccio e calvo sulla cinquantina è apparso dal corridoio, ha gridato: «Marco!» con [ Pobierz caÅ‚ość w formacie PDF ]

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